fonte: http://roma.corriere.it/
Gli arresti a Napoli riaccendono i riflettori sulla discarica più grande d’Europa, dove l’Arpa aveva già denunciato: «Scarica veleni nel terreno e nelle acque»
ROMA – «Napoli ferma gli avvelenatori. E Roma che fa?». Mentre sul Golfo l’inchiesta sui gravi reati ambientali forse commessi da alcuni funzionari ha portato all’arresto dell’ex commissario ai rifiuti, dell’ex vice di Bertolaso Marta Di Gennaro e di altri 12 indagati, Legambiente rilancia l’allarme sul caso Malagrotta.
Anche nella più grande discarica d’Europa alle porte di Roma, come denunciato da Corriere.it nel novembre 2010, c’è una preoccupante produzione e dispersione di percolato. Che finisce nel Mar Tirreno e, ancor peggio, nelle falde acquifere della Capitale. «Ma allora perchè – si chiede Lorenzo Parlati, presidente di Legambiente Lazio – a Napoli sono scattate le manette e a Roma non succede niente?».
FERMENTAZIONE VELENOSA – Secondo i magistrati inquirenti, in Campania il percolato – il liquido velenoso che si crea nel processo di fermentazione dei rifiuti – veniva sversato in mare di proposito, per «smaltirlo» senza sottostare alle complesse operazioni di filtraggio previste dalla legge. Alle porte della Capitale, invece, i liquami che fuoriescono da Malagrotta inquinano le falde acquifere. Poi da rii e ruscelli, gli inquinanti si riversano nel Tevere (come codumentato dalle foto aeree del Rio Galeria) e infine in mare. Esattamente come accade in Campania.
DENUNCIA DELL’AGENZIA REGIONALE – L’Agenzia regionale per l’Ambiente, che a Malagrotta aveva condotto per quattro mesi, da febbraio a maggio 2010, una serie di prelievi nel sottosuolo, il percolato impone un pesantissimo «allarme rosso». In sintesi: nelle viscere della discarica che raccoglie l’immondizia della Capitale c’è la «conferma di un quadro di contaminazione delle acque sotterranee». Uno scenario che, rispetto alla stessa verifica condotta nel 2009, appariva, già quasi un anno fa, «peggiorato, sia per composti inorganici che organici». Ecco perché l’Arpa, senza giri di parole, sollecitava – nel documento protocollo n. 119656/03/30/13 del luglio 2010 – «misure di messa in sicurezza del sito volte a contenere la diffusione della contaminazione», nonché «successivi interventi di bonifica». Che cosa è stato fatto da allora?